sabato 17 gennaio 2015

"La lotta contro la prepotenza e l'ingiustizia sono valori che vanno onorati"

Nando dalla Chiesa (Foto: Lidia Baratta)
Università degli Studi di Milano - Inaugurazione Anno Accademico 2014-2015

Laudatio di Nando Dalla Chiesa per il conferimento della laurea ad honorem a don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi


L’Università degli Studi di Milano conferisce oggi ad honorem la sua laurea magistrale in Comunicazione pubblica e di impresa a tre persone speciali: don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi.

Tre protagonisti del nostro tempo, tutti e tre uomini di chiesa che un linguaggio cresciuto nella nostra università, a partire da un gruppo di studenti, ha designato come “i don dell’Italia civile”, e che un altro vocabolario, nutrito dalla stessa ammirazione per la generosità della loro esperienza di vita, indica come “preti di strada” o, con più precisione, “preti di trincea”.


Si tratta di persone che hanno militato per lunghi decenni dalla parte degli ultimi, qualunque volto questi assumessero sotto le folate impietose della storia: i senza casa delle notti metropolitane, i giovani divorati dalla tossicodipendenza, gli emarginati con addosso gli sfregi della violenza sociale o familiare, i malati a lungo senza speranza di aids, le vittime della mafia e i loro familiari, i migranti senza né lingua né diritti alla ricerca di accoglienza, di un segno di fratellanza umana.

Tutti, essi, hanno accolto e aiutato, spesso cercandoli e andando loro incontro, senza mai domandare se avessero un dio e quale fosse. In un paese che appare trascinato dai suoi vizi culturali -come una dannazione- a vedere nascere il lucro e la speculazione sulle sciagure naturali e sui drammi sociali, don Luigi, don Virginio e don Gino si sono invece dedicati ad alleviare quelle sciagure e quei drammi mettendo a disposizione dell’area mai chiusa della sofferenza il proprio prestigio, il proprio senso di giustizia, anche la propria resistenza fisica.
Hanno svolto così nel modo più alto una delle tre funzioni istituzionali dell’università, quella del servizio alla società in cui opera e della promozione delle sue consapevolezze morali e civili. Ma ne hanno svolto pure una seconda, quella della formazione.

Preti di strada, ma anche di letture e di ragionamenti complessi, più volte scrittori, hanno offerto e offrono a giovani e insegnanti occasioni di studio e di formazione d’avanguardia su temi spesso trascurati proprio dall’accademia, portando in questa attività formativa i frutti di una instancabile ricerca sul campo, offrendo a generazioni di studiosi un sapere di prima mano, talora terribilmente di prima mano.

Per fare questo hanno svolto, hanno dovuto svolgere, una azione continua e multiforme di comunicazione. Se oggi l’Università degli Studi di Milano, che questa disciplina insegna, dà loro una laurea in comunicazione pubblica e di impresa è proprio perché, a partire dalle loro vite, vuole appunto ricordare quanto ampia e intensa, e non solo frivola, sia l’attività di comunicazione su cui si costruisce la società ogni giorno.

Comunica la pubblicità geniale, il marketing sapiente. Ma comunica anche e soprattutto la parola che intreccia le volontà e i destini, che accompagna e dà speranza. Comunica il comportamento che dà credibilità alla parola. Parla agli allievi il comportamento del docente, parlano al figlio le scelte di vita del padre. Parla la qualità dei prodotti e dei servizi, il modo di essere di un’impresa. Comunica perfino il silenzio. Comunicava a tutti il suo valore militare Achille, lasciando incerte le sorti della guerra, quando silenzioso nella tenda rifiutava di combattere per il torto inflittogli da Agamennone. Comunica in silenzio i suoi ideali il patriota o il partigiano che accetta in nome loro la fucilazione. Il suo silenzio che sarà per sempre parla più della parola. Ma parla pure il silenzio davanti all’empietà. Verità elementari che la scienza della comunicazione sembra avere dimenticato.

Nel silenzio pubblico don Luigi Ciotti telefona ogni mattina ai familiari delle vittime di mafia per i quali ricorre quel giorno l’anniversario del loro caro. Nel silenzio pubblico don Virginio Colmegna offre riparo all’ultimo migrante buttatogli tra le braccia da guerre o dittature o speranze disperate. Nel silenzio pubblico don Gino Rigoldi, centimetro per centimetro, guadagna al rispetto e all’amore gli adolescenti a cui la vita ha insegnato la legge brutale della forza fisica. Ma nel silenzio il comportamento genera i suoi frutti. Ciò che è privato e silenzioso diventa nel tempo fatto pubblico e fragoroso dinnanzi ai costumi del paese.

Perché anche gli ultimi parlano. Perché il passaparola instancabile e spontaneo costruisce il senso e la bellezza di quell’agire e lo consegna, come un suggerimento prezioso, al padre dell’ultimo poliziotto ucciso dalla mafia o all’ultimo migrante che sbarca a Lampedusa. Consapevoli, loro, di quel che l’informazione a volte non sa, perché li raggiunge la comunicazione dei simili, della vita quotidiana, assai più che il flusso del mondo virtuale.

L’Università degli Studi conferisce la sua laurea ad honorem in Comunicazione pubblica e di impresa a tre persone che non frequentano l’inglese e che difficilmente presenterebbero a un convegno schemi e grafici luminosi. Non perché questa mancanza di attitudine debba essere assunta come merito. Ma per indicare la quantità delle convenzioni che pesano sull’idea comunemente affermatasi di che cosa sia e di come sia fatta la buona comunicazione, la comunicazione efficace.

La storia dei tre “don” sta lì a dimostrare, piuttosto, la potenza della parola credibile, la forza che si sprigiona dalle esperienze di vita. Le parole pesano diversamente, e conquistano diversamente, a seconda di chi le pronuncia e dei valori che le sorreggono. La teoria della comunicazione prova a cimentarsi con questa ineludibile verità ricorrendo al concetto di reputation (un termine inglese, naturalmente) ma il messaggio che le arriva da queste tre biografie, che sono insieme individuali e collettive, è ben più alto. Non di reputation si tratta, ma di storia sociale profonda, di un patrimonio cumulativo di speranze e di solidarietà.

La parola che fabbrica. L’uso di uno dei più grandi doni che la natura abbia fatto all’uomo. Questo è in fondo il tema svolto dai protagonisti di questa nostra giornata. Non la comunicazione come strumento per manipolare gli orientamenti di consumo o di condotta, per piegarli a esigenze private. Ma la comunicazione come strumento di ideali generosi, grazie a cui ciò che a stento si delinea come sogno diventa realtà che opera e trasforma, e smuove le coscienze. Un messaggio controcorrente davanti all’idea montante di una comunicazione asettica, indifferente all’identità e agli scopi di chi deve rappresentare, soddisfatta del suo dizionario professionale e che ha fatto della responsabilità sociale una sua branca specialistica.

In questo senso la comunicazione dei tre protagonisti oltre ad acquisire una fortissima dimensione pubblica diventa, di fatto, anche comunicazione di impresa. Essi creano come l’imprenditore schumpeteriano, non per calcolo razionale ma muovendo da una fortissima energia e spinta interiori.
Rompendo gli schemi dell’immaginazione pubblica e realizzando cose nuove, così che, dopo, la società non è più uguale a prima. Esattamente come fa con le sue innovazioni l’imprenditore schumpeteriano, il quale ogni volta rompe “il flusso circolare dell’economia”. Artefici di imprese sociali.

Come Comunità nuova, come la Casa della Carità ispirata un giorno da Carlo Maria Martini. Come il Gruppo Abele o come l’associazione Libera. Ma artefici anche di imprese economiche. Difficili, preziose. Le cooperative per reinserire i giovani emarginati o per dare terra amica a chi è giunto senza averi nel nostro paese. Le cooperative che sfidano ogni anno le intimidazioni e gli incendi e le distruzioni del raccolto nel sud martoriato dalle mafie ma ormai anche nel nord. Imprese seguite con amore e con passione, progetti ogni volta sostenuti e incoraggiati e promossi davanti alle istituzioni, alle banche, agli utenti, ai consumatori, alle comunità più diverse attraverso la pura forza della parole e della credibilità personale.

Conferendo queste tre lauree ad honorem, l’Università degli Studi di Milano comunica anch’essa. Dice con la solennità dell’inaugurazione di un anno accademico che la solidarietà e il servizio agli altri, la lotta coraggiosa contro la prepotenza e l’ingiustizia sono valori che le appartengono e che vanno onorati.
Lo dice alla città con cui ha intrecciato la sua lunga storia, a volte bellissima, a volte umiliante o tormentata, lo dice ai suoi studenti, gli stessi di cui è chiamata a forgiare l’etica della professione avviandoli a diventare avvocati e magistrati, professionisti e diplomatici, pubblici amministratori e giornalisti, ricercatori e insegnanti, medici e imprenditori.
Lo dice anche agli studenti che vengono da lontano o che guardano a lei da lontano, in un mondo percorso, dal Messico alla Siria, da antiche e sempre nuove ingiustizie e violenze e che non vogliono assuefarsi alla rappresentazione hegeliana della storia come immenso mattatoio.

Comunica se stessa, questa università, anche al sistema accademico italiano. Scegliendo al suo cospetto, forte della sua storia e del suo prestigio, quali valori premiare, anche nella comunicazione: la fatica più della notorietà mediatica, l’immagine che si sostanzia di scelte di vita più che l’immagine sospinta da successi repentini.

Spiegando ai suoi studenti che non vivono in un luogo senz’anima e che l’espressione “comunità accademica” è fatta certo di un aggettivo ma prima ancora di un sostantivo esigente verso tutti. In una società convintasi che il grande comunicatore sia un giocoliere delle parole, capace di sostituire la realtà con l’affabulazione, l’Università, con il buon senso che accompagna il rigore scientifico, spiega che il grande comunicatore è colui che senza altri mezzi persuade altri verso la costruzione di realtà nuove o verso traguardi importanti: finanziare una scoperta scientifica, aprire nuovi percorsi collettivi, introdurre leggi e principi che fanno più civile una società.

E’ quello che hanno fatto don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna, don Gino Rigoldi. Parlando nelle sedi istituzionali più solenni o arrivando stanchi e trafelati di sera in un anonimo circolo di periferia, celebrando messe dei diritti o messe multireligiose, o intessendo una infinità preziosa di dialoghi a due, tenendo una mano sconosciuta e impaurita o rabbiosa o offesa tra le proprie, a volte mentre in altri luoghi i signori del crimine li maledivano .
A loro il grazie sincero dell’Università di Milano, dei suoi studenti, dei suoi docenti e ricercatori, di tutto il suo personale.

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